martedì 7 febbraio 2012

Tommaso



Mi ha chiesto mia sorella di scrivere cosa significhi per me Viatosto per dare un contributo ad un progetto che condivido, ma non perché riguardi Viatosto, dove abito, ma in quanto invita a riflettere sul più diffuso ma mai sufficientemente recepito tema della tutela delle campagne a fronte della dilagante cementificazione.
Tuttavia, non essendo una persona socievole, e non essendo aduso a sentimentalismo ed a concetti quale “luogo dell’anima”, come ad altre stucchevoli espressioni, invitato a riflettere su cosa significhi per me Viatosto, devo rispondere che per me Viatosto non significa assolutamente niente.
Non vi trovo nulla di speciale.
Tutto quello che so di Viatosto non ha a che vedere con le passeggiate domenicali, né tantomeno con il sagrato della chiesa dove sono stato battezzato e dove ho con il senno di poi ricevuto indegnamente gli altri sacramenti, né tantomeno con il bar in cui la gente si raduna d’estate ad ammirare quanto sia bello il Monviso e – si spera – quanto sia brutto, lì, il nuovo ospedale.
Io sposo pienamente la causa di mia sorella per il motivo che ho già detto, ma non so assolutamente cosa sia questa Viatosto di cui lei parla e che, in quanto comunità civile, saremmo tutti chiamati a difendere.
So che a Viatosto c’è un lago, meglio uno stagno, dove d’estate un branco di vandali va a rinfrescarsi tra una scorribanda e l’altra. Sono quattro grossi cani, tre bianchi ed uno nero, bastardi ma con la morfologia tipica dei grossi cani da pastore. Ci siamo incontrati raramente, mentre io ero con i miei cani e li ho visti sguazzare sotto il mio naso con tutta l’aria di sapere che quel bagno e quegli schiamazzi rappresentassero un gesto di sfida e di disprezzo nei confronti miei e dei miei setter purosangue ben maggiore di quanto sarebbe stato un loro attacco frontale.
So anche che in quel lago era venuta a riprodursi – lontano dagli occhi indiscreti dei birdwatchers e di fanatici della natura da area pic-nic – una coppia di aironi cinerini, animali per me all’epoca rarissimi e misteriosi e che non è mai più tornata.
So che, se sant’Uberto un giorno ha visto in Austrasia un cervo con un crocifisso che brillava tra le corna, io un pomeriggio con mio padre a Viatosto ho visto una fagiana tutta bianca.
So che, alla faccia del razionalismo, a Viatosto c’è chi, incontrato per caso un giorno, mi disse di aver pensato a me e mio padre qualche sera prima dato che aveva la scrofa in calore (salvo poi precisare che quella particolare circostanza aveva fatto sì che i cinghiali dei dintorni, attratti dalla sua preziosa scrofa, gli invadessero cortile, ed allora sarebbero tornate utili un paio di doppiette).
Io so queste cose di Viatosto, e non mi pare di sapere nulla di speciale. Ci sono i contadini, un sacco di pollai, qualche cane legato ad una catena troppo corta, ma comunque parte di un’economia domestica che gli fornisce vitto e alloggio in cambio della sua – ormai prossima all’estinzione – professione di guardiano.
Non posso dire che tutto questo significhi qualcosa per me, così come non posso pretendere che significhi qualcosa per gli altri, specie se nemmeno vi abitano.
Non posso pretendere di dare un significato alla collina, invisibile alle strade, dove approfittando della cecità della mia povera nonna Anna che vegliava la mattina su di me che avevo rifiutato quell’odiosa fretta di educazione e socialità che è l’asilo, mi allontanavo cercando senza risultati di catturare un piccione selvatico, magari quello bianco e marrone, o di trovare il rigogolo o l’improbabile beccofrusone. 

O dire che speciale fosse l’albero di graffioni sul quale vidi l’upupa una mattina che ero rimasto a casa in terza o quarta elementare, senza che nessuno mi credesse.

Né tantomeno posso pensare che vi sia qualcosa di unico nel traliccio dell’alta tensione della proprietà Leva, sul quale ogni anno si radunano gli storni che per tutta l’estate hanno devastato i nostri ciliegi per poi partire ad andare chissà dove, ma comunque sempre per far ritorno l’anno successivo.
Ci sono un sacco di storni in giro, ed altrettanti pali della luce.
So anche che c’è in giro una volpe che caccia di giorno, ma non vedo perché questa volpe dovrebbe avere qualcosa di più speciale di quella che ho visto quest’inverno uscire da un noccioleto di Calliano.
Io posso dire queste cose ed altre, posso dire che ho salvato una cornacchia caduta dal nido e che ho liberato (te lo confesso Maurizio)  insieme a Tommaso Debenedetti, oggi eccelso bocconiano, le altre due che mio cugino teneva in cattività, e posso informarvi che lentamente i pettirossi stanno tornando ad essere numerosi, che sono arrivate qualche anno fa le poiane, che sono belle ma sono anche un problema, e che di caprioli dalle mie parti, fatta eccezione per quell’unico maledetto che hanno visto tutti in casa mia, compreso il giardiniere, ma non io che all’epoca me lo immaginavo grande almeno quanto un cervo adulto, non v’è traccia.
Non potrei dire che tutto questo abbia un significato particolare senza cadere in un esercizio intellettual – letterario per il quale non sono portato.
Viatosto è in campagna, e in campagna capitano queste cose.
Capita però, quando si è in campagna di scoprire anche alcune cose che, se si ha la volontà di percepirle, sono in grado di toglierci ogni rimpianto.
Allora so che un giorno d’estate, mentre allenavo i miei cani in un prato sotto casa mia, mi sono fermato a guardare lo steccato ormai pericolante che mio padre fece costruire per il nostro cavallo. Quei pali, forse di gaggia, divorati dal tempo ed inghiottiti dai rovi avevano un particolare fascino decadente. Mentre li guardavo mi sono reso conto che tutte le volte che mi ero fermato a pensare ad una vecchia fotografia in bianco e nero cercando di immaginare come fosse stata effettivamente all’epoca l’immagine in essa rappresentata, avevo perso del tempo. Se avessi avuto 25 anni nel 1930 e avessi guardato quello steccato costruito nel 1911, avrei visto la stessa identica immagine e gli stessi identici colori, sentito gli stessi suoni e gli stessi profumi. In fondo è una banalità, è niente, la stessa riflessione avrei potuta farla altrove.
Però ho provato un certo gusto a rendermi conto di questo guardando uno steccato, simbolo di un insediamento umano: troppo facile sentirsi persi nel tempo nella natura selvaggia. I deserti erano così 2000 anni fa e lo saranno tra altrettanti.
Devo allora riconoscere che il favore che mia sorella mi ha chiesto mi ha costretto ad uscire allo scoperto, e quel niente che Viatosto significa per me, è un niente molto prezioso.
E’ il niente della normalità di un’area che pur vicina alla città ha conservato una propria identità rurale, senza dover per forza scadere nel residenziale da cartolina. Vi sono ancora i cani di paese, non randagi, lo stagno segreto, e forse una qualche discendenza della fagiana bianca. C’è ancora chi si pone il problema di difendere la virtù della propria scrofa dalle razzie notturne dei cinghiali e chi continua, oggi come da sempre a difendere il pollame dalle incursioni delle volpi.
Tutto questo, senza essere in uno dei nostri paesi, ormai relegati a veri e propri musei, riserve indiane che testimoniano un modello di vita ormai in estinzione.
Viatosto allora significa questo, un luogo che dovrebbe essere assolutamente normale, ma non lo può più essere, ed allora ecco che diventa qualcosa di davvero prezioso da difendere.

Talmente prezioso che l’upupa dopo quasi vent’anni è tornata, questa volta fermandosi per due estati consecutive, dissolvendo ogni dubbio sulla mia credibilità, che già l’avevo vista sull’albero di graffioni una mattina che rimasi a casa da scuola in terza o quarta elementare.

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