sabato 14 aprile 2012

Elisabetta


Specchio
Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.

Salvatore Quasimodo
È una splendida giornata primaverile, i tiepidi raggi del sole filtrano fra i rami e un vento leggero mi accarezza i capelli…
Esco di casa per una camminata… cerco un luogo tranquillo, nel verde, in cui potersi fermare a pensare, lontano dai rumori della città e da un’intensa settimana di lavoro.
Passo dopo passo, mi ritrovo a percorrere la familiare strada che conduce alla chiesetta di Viatosto.
Il cielo è di un azzurro intenso, senza una nuvola.
I prati di un verde brillante.
Sugli alberi spuntano le prime gemme ed i fiori sbocciano nella loro veste più nuova.
Un delicato profumo d’erba e di glicine mi circonda.
I colori vivaci dei tulipani, dei lillà e degli alberi da frutto in fiore contrastano con l’azzurro del cielo.

La natura si risveglia dopo il freddo invernale.
Un miracolo che ogni volta mi sorprende.

Chiudo gli occhi per un istante. Mi torna alla mente come, solo qualche mese fa, in una domenica di gennaio, con alcuni amici camminatori, avevo percorso questa stessa salita sotto la neve.
Intorno a noi, solo silenzio ed il candore della neve.
E’ iniziato a nevicare questa notte e nessuno ha ancora percorso questa strada.
La natura appare come addormentata, animata solo dal turbinio degli immacolati fiocchi di neve.
Il paesaggio, in una notte, é mutato, come trasformato dalla mano di un abile pittore.
La neve scendeva lenta, smorza i rumori della città che si allontana.
Solo il canto di un uccellino, alla ricerca del cibo, ci richiama alla realtà.
Riapro gli occhi. Senza accorgermene sono giunta in cima alla salita. Vedo già in lontananza la torre di Viatosto e, dopo qualche momento, il campanile e la facciata romanica della chiesa.
Ricordo come, da bambina, ci avessero portati qui in gita scolastica.
Ero rimasta incantata da come, non appena entrati all’interno della chiesa, si venisse avvolti da un’aurea di sacralità e trasportati in un tempo lontano.
La bellezza degli affreschi, la Madonna del latte e San Giorgio che uccide il drago; nell’abside, la grazia della Madonna lignea trecentesca; nelle cappelle laterali, la scultura dell’incoronazione della Vergine e la Madonna delle Ciliegie.
Questo luogo non è come gli altri. E’ ai confini tra realtà e sogno.
Sosto qualche istante sul sagrato della chiesa.
Davanti a me tutta la città, dolci colline verdeggianti a perdita d’occhio, le mie adorate montagne, con il Monviso che svetta maestoso.

Arrivare qui mi fa sempre questo effetto: la stanchezza, i pensieri, le preoccupazioni vengono lasciati alle spalle durante la salita.

Il cammino suscita sensazioni, emozioni e ricordi sempre nuovi.

Un senso di serenità e pace pervade il cuore.

Viatosto sa ogni volta stupirmi.




martedì 6 marzo 2012

Francesca





Sono nata e ho sempre vissuto in città.

Per anni “andare in campagna” era andare a casa dei miei nonni, in un paesino a circa una ventina di km da Asti dove ho trascorso intere domeniche giocando a nascondino nelle vigne, raccogliendo fiori e osservando le formiche uscire dalla terra e scalare le colline.
Poi un giorno, verso la fine delle elementari, la maestra ci ha portati in visita a Viatosto. Abbiamo camminato una mezz’oretta in fila per due, ordinati come soldatini e siamo arrivati davanti alla chiesa.
Ricordo bene che, dopo essermi guardata un po’ intorno, pensai con un certo stupore: “Sono in campagna e ci sono arrivata a piedi, senza nemmeno prendere la statale!”
Non mancava nulla, c’erano i prati verdi, le vigne, un sacco di fiori, una piazzetta, un piccolo bar, la chiesa..proprio come al paesino dove andavo a trovare i miei nonni.
Ero in campagna e vicinissima al centro di Asti. Ricordo che fu davvero una bella scoperta.

Sono passati un bel po’ di anni ed ora a Viatosto ci vado a correre, tutte le volte che torno ad Asti.
E’ un percorso che ormai non ha segreti; so bene dove trovare l’ombra quando fa molto caldo e dove fare attenzione perché d’inverno alcuni tratti sono più ghiacciati.
Mi arrampico su per la salita, fino al campanile, do un’occhiata al suo orologio e, alzando gli occhi, verso l’orizzonte, saluto il Monviso che sembra volermi dire che il peggio è passato e mi sono meritata la discesa.
A volte mi fermo, non tanto per riprendere fiato, ma per scattare una foto a quello scenario che, ancora dopo tanti anni, riesce sempre a farmi rallentare un attimo.

Qualche mese fa mi capitò sotto mano un articolo di giornale intitolato “correre in campagna è meglio che correre in città”.
Si trattava di uno studio del dipartimento di Scienze della Salute dell’università di qualche città che non ricordo, che, dopo aver effettuato un’indagine tra gli atleti che si allenano in città e quelli che si allenano in campagna, comparando i valori, aveva rilevato che nei primi è circa mille volte superiore il biossido di azoto, cioè il principale inquinante da traffico, che irrita il tessuto polmonare.
Seguiva il commento di un illustre professore che sottolineava quanto fosse più salutare per le nostre vie respiratorie correre in campagna, lontano dalle strade e dallo smog.
Tutto facilmente intuibile, anche senza lo studio del dipartimento di Scienze della Salute, e poi in qualità di fumatrice, non è nemmeno troppo coerente preoccuparsi tanto degli effetti nocivi del biossido di azoto!
Ma sicuramente tra le considerazioni dell’illustre professore ne mancava una, a parer mio la più importante e cioè che, particelle inquinanti a parte, correre in campagna, lontano dalle vie trafficate,  fa molto meglio, non solo ai polmoni, ma allo spirito.
Qualcuno disse che l’uomo quando corre immerso nella natura ridiventa animale; cacciatore o cacciato non fa differenza. E devo dire che ci penso spesso a questa frase quando corro lungo la strada della campagna di Viatosto, con lo stesso orizzonte davanti e dietro.
Correre e sentire il battito del fiato nelle tempie, il tonfo lieve dei piedi uno dietro l’altro, l’odore di erba medica, il profumo dell’erba appena tagliata, le cicale con il loro instancabile frinire, il ronzio delle api, vedere il Monviso, vedere scorrere accanto le querce, le vigne, le colline verdi e tondeggianti.
Correre  lontano da palazzi che ti osservano dall’alto, dalle auto e dalle distese di cemento.
E’ questo il  vero motivo per cui Viatosto deve resistere alla città che, sempre più frequentemente, deborda dai suoi confini, scoppia e si sparpaglia, sfigurando la campagna.
Perché ogni volta che torno ad Asti, voglio poter continuare a sentirmi una privilegiata, che, indossate le scarpe da ginnastica, può godersi la campagna, a pochi minuti dalla città, in un posto che non deve cambiare mai.
























martedì 14 febbraio 2012

Luca


La “Sindrome da foglio bianco” non mi capitava dai tempi in cui mi accingevo a scrivere la tesi di laurea sette anni or sono. Eppure faccio il giornalista pubblicista da qualche tempo e scrivo praticamente ogni giorno della settimana. Il punto è che, questa volta, tocca scartabellare tra i ricordi. Ed essendo ormai un (quasi) vecchio rincoglionito sbrogliare la matassa non è per nulla facile.

Proviamo a semplificare con una semplice associazione di idee/immagini. Se penso a Viatosto la prima che mi viene in mente è “la limonata”. Il riferimento è ovviamente alla bevanda dissetante che tutti quanti inseguivamo in età adolescenziale. Perché a Viatosto, a vedere il panorama, ci portavi mica la nonna? A Viatosto: 1) c’è il muretto panoramico della chiesa che dà sulla città (e non solo), 2) c’è il bar, 3) c’è il parco con le panche in cemento armato stile DDR, 4) ci sono gli alberi dietro le panche in cemento armato stile DDR che garantiscono quella piacevole frescura anche negli impossibili e afosissimi pomeriggi estivi, 5) c’è un salubre percorso di qualche chilometro nel verde che conduce al parco con gli alberi che fanno ombra sulle panche in cemento armato stile DDR.
E’ la campagna in un angolo di città che rischia di diventare sempre più città e sempre meno campagna.

Un quadretto ideato da chissà quale essere umano in tempi ormai remoti e in cui ogni elemento esiste appositamente per accompagnarci nelle diverse fasi della nostra vita.

Mi spiego.
1) Il muretto con panorama facilitava l’accesso di noi tutti alla limonata. Conoscevi una ragazza e, se il sabato pomeriggio non eri di quelli che si facevano le vasche in centro per prendersi schiaffi dagli zarri di turno a cui non offrivi almeno UN PACCHETTO di sigarette, mettevi in moto lo scooter e ti recavi (rigorosamente in due senza casco – grazie Max Pezzali) in loco con la (futura) concupita a dirti parole impossibili (grazie Dawson’s Creek) cercando di fare come i fighi dei telefilm (grazie Dylan di Beverly Hills 90210).
2) Il bar….vabè...perché non bersi una birra anche ad agosto con 43°C all’ombra?
3) e 4) Le panche in cemento e bla bla…ricordo di aver preparato un esame di storia della filosofia antica su quelle panche in cemento e bla bla e di aver anche preso un 27 bello rotondo con Cambiano. Sarà stato per le panche in cemento e bla bla o per la frescura degli alberi alle spalle delle panche in cemento e bla bla….fatto sta che se ho preso 27 in un periodo in cui il caldo mi faceva svenire un giorno sì e l’altro pure vuol dire che quelle panche e quegli alberi, a conti fatti, rappresentano IL BENE.
5) Il percorso di qualche chilometro in saliscendi che conduce al parco con gli alberi che bla bla è la scusa plausibile di ogni astigiano per mettersi in pace con la propria coscienza e provare a superare la prova costume. Ok, le mie velleità da ex atleta caduto in disgrazia mi portano più a puntare sulla simpatia, ma non nascondo il perverso piacere di trotterellare su e giù per quel sentiero riparato dalle fronde delle querce (o almeno da quelle rimaste) nel clima mite della primavera.

E vengo al punto.
A Viatosto ci vai da ragazzo per limonare, ci torni da studente per rilassarti e/o studiare e/o farti una birra, ci vai da ex studente per tentare di tornare com’eri da studente, ci torni da adulto per goderti aria buona, bel panorama e giornate serene a due passi da casa con la persona che ami, con un amico che non vedi da tempo (e che magari anni fa era sullo stesso muretto della chiesa a limonare a sua volta con qualche ragazza) o con la nonna che non vedi da troppo tempo, ci tornerai da vecchio per ricordare i bei tempi andati o semplicemente per non divenire vittima inerme dell’artrosi.

Viatosto è, in ultima analisi, una metafora bucolica e provinciale della vita. Noi tutti abbiamo bisogno di un posto che, rimanendo romanticamente sempre uguale a sé stesso, ci metta di fronte ai nostri cambiamenti in rapporto ad esso.
Game, set, match.

sabato 11 febbraio 2012

Enrico


Ah, l'arroganza del turista. Per due secoli e mezzo, residenti e villeggianti hanno tentato una difficile convivenza. Credo che alla fine si sia raggiunto un compromesso: sopportarsi giusto il tempo di una vacanza. Ci penso spesso, quando visito luoghi stranieri. Cosa passerà nella testa dei valdostani, dei liguri, dei fiorentini, quando si va a far foto al Cervino, a Strada Nuova, a Palazzo Pitti? Si limitano a tollerare il visitatore o sono sinceramente lieti di aprirgli il loro territorio? Personalmente, quando vedo tedeschi gironzolare per Asti, vorrei abbracciarli. Danke ragazzi, ditelo a casa che la città è bella. E la prossima volta portate anche il cugino Helmut.

Ma quelli che abitano a Viatosto? Dico, anche loro hanno parecchia gente che va e viene, cittadini che arrivano fino alla chiesa in bici, di corsa, o camminando veloci (soprattutto le signore di una certa età, le riconosci dalla giacca della tuta allacciata dietro alla schiena). Forse quelli di Viatosto ci hanno fatto il callo, e considerano tutti gli astigiani che salgono fin da loro come parte della fauna locale. Finché si limitano a farsi il loro giro, penseranno, non danno poi troppo disturbo.

Ecco, questo è il problema. Per quel che mi riguarda, non riesco più a limitarmi al solito giro. Godermi la collina, il muro che costeggia la torre, i campi con la staccionata di legno, non mi basta più. Sento la necessità di ficcare il naso nelle faccende del borgo. Lo devo proprio dire: ho l'impressione che chi abita a Viatosto, o per lo meno una parte di loro, non abbia coscienza della bellezza circostante. Lo vedo da come spariscono piccoli dettagli di un paesaggio che era unico. Le querce lungo la strada, le rive cementificate all'inizio della salita, qui e cantieri che non lasciano presagire nulla di buono. Tessere rubate a uno splendido mosaico, caratteri irripetibili senza i quali il paesaggio è sempre più banale.

Per quel che ne so, causa diretta o indiretta di questo impoverimento sono quasi sempre i residenti di Viatosto. Siamo al paradosso: chi viene da fuori è più sensibile al mutamento, percepisce la perdita di bellezza del luogo e agisce di conseguenza. C'è chi scrive lettere ai giornali, chi coinvolge il Comune, chi organizza manifestazioni. I destinatari delle critiche abbozzano, fanno spallucce. La gente si abitua a tutto e dimentica anche in fretta. È un meccanismo dal quale difficilmente si esce, succede in tutta Italia e in tutta Italia negli ultimi cinquant'anni ha contribuito a cancellare piccoli e grandi tesori.

C'è una sola soluzione, e ancora una volta toccherà mettere il naso nelle faccende del borgo. Toccherà dire a chi ci abita cosa fare della loro Viatosto. Ma lo dico a quellie voglio credere che siano la maggioranzache sanno benissimo di vivere in un luogo splendido. Condividete con i vostri vicini questa vostra coscienza, fate in modo che vedano i dettagli che compongono la bellezza dell'insieme. Date vita a un movimento di resistenza che lotti per il paesaggio, puntate in alto, pretendete che gli amministratori riconoscano e tutelino l'unicità di Viatosto. Finché a dirvelo sarà un tizio qualunque di città, il messaggio varrà poco. E rischierà di essere preso per il solito turista invadente.

martedì 7 febbraio 2012

Tommaso



Mi ha chiesto mia sorella di scrivere cosa significhi per me Viatosto per dare un contributo ad un progetto che condivido, ma non perché riguardi Viatosto, dove abito, ma in quanto invita a riflettere sul più diffuso ma mai sufficientemente recepito tema della tutela delle campagne a fronte della dilagante cementificazione.
Tuttavia, non essendo una persona socievole, e non essendo aduso a sentimentalismo ed a concetti quale “luogo dell’anima”, come ad altre stucchevoli espressioni, invitato a riflettere su cosa significhi per me Viatosto, devo rispondere che per me Viatosto non significa assolutamente niente.
Non vi trovo nulla di speciale.
Tutto quello che so di Viatosto non ha a che vedere con le passeggiate domenicali, né tantomeno con il sagrato della chiesa dove sono stato battezzato e dove ho con il senno di poi ricevuto indegnamente gli altri sacramenti, né tantomeno con il bar in cui la gente si raduna d’estate ad ammirare quanto sia bello il Monviso e – si spera – quanto sia brutto, lì, il nuovo ospedale.
Io sposo pienamente la causa di mia sorella per il motivo che ho già detto, ma non so assolutamente cosa sia questa Viatosto di cui lei parla e che, in quanto comunità civile, saremmo tutti chiamati a difendere.
So che a Viatosto c’è un lago, meglio uno stagno, dove d’estate un branco di vandali va a rinfrescarsi tra una scorribanda e l’altra. Sono quattro grossi cani, tre bianchi ed uno nero, bastardi ma con la morfologia tipica dei grossi cani da pastore. Ci siamo incontrati raramente, mentre io ero con i miei cani e li ho visti sguazzare sotto il mio naso con tutta l’aria di sapere che quel bagno e quegli schiamazzi rappresentassero un gesto di sfida e di disprezzo nei confronti miei e dei miei setter purosangue ben maggiore di quanto sarebbe stato un loro attacco frontale.
So anche che in quel lago era venuta a riprodursi – lontano dagli occhi indiscreti dei birdwatchers e di fanatici della natura da area pic-nic – una coppia di aironi cinerini, animali per me all’epoca rarissimi e misteriosi e che non è mai più tornata.
So che, se sant’Uberto un giorno ha visto in Austrasia un cervo con un crocifisso che brillava tra le corna, io un pomeriggio con mio padre a Viatosto ho visto una fagiana tutta bianca.
So che, alla faccia del razionalismo, a Viatosto c’è chi, incontrato per caso un giorno, mi disse di aver pensato a me e mio padre qualche sera prima dato che aveva la scrofa in calore (salvo poi precisare che quella particolare circostanza aveva fatto sì che i cinghiali dei dintorni, attratti dalla sua preziosa scrofa, gli invadessero cortile, ed allora sarebbero tornate utili un paio di doppiette).
Io so queste cose di Viatosto, e non mi pare di sapere nulla di speciale. Ci sono i contadini, un sacco di pollai, qualche cane legato ad una catena troppo corta, ma comunque parte di un’economia domestica che gli fornisce vitto e alloggio in cambio della sua – ormai prossima all’estinzione – professione di guardiano.
Non posso dire che tutto questo significhi qualcosa per me, così come non posso pretendere che significhi qualcosa per gli altri, specie se nemmeno vi abitano.
Non posso pretendere di dare un significato alla collina, invisibile alle strade, dove approfittando della cecità della mia povera nonna Anna che vegliava la mattina su di me che avevo rifiutato quell’odiosa fretta di educazione e socialità che è l’asilo, mi allontanavo cercando senza risultati di catturare un piccione selvatico, magari quello bianco e marrone, o di trovare il rigogolo o l’improbabile beccofrusone. 

O dire che speciale fosse l’albero di graffioni sul quale vidi l’upupa una mattina che ero rimasto a casa in terza o quarta elementare, senza che nessuno mi credesse.

Né tantomeno posso pensare che vi sia qualcosa di unico nel traliccio dell’alta tensione della proprietà Leva, sul quale ogni anno si radunano gli storni che per tutta l’estate hanno devastato i nostri ciliegi per poi partire ad andare chissà dove, ma comunque sempre per far ritorno l’anno successivo.
Ci sono un sacco di storni in giro, ed altrettanti pali della luce.
So anche che c’è in giro una volpe che caccia di giorno, ma non vedo perché questa volpe dovrebbe avere qualcosa di più speciale di quella che ho visto quest’inverno uscire da un noccioleto di Calliano.
Io posso dire queste cose ed altre, posso dire che ho salvato una cornacchia caduta dal nido e che ho liberato (te lo confesso Maurizio)  insieme a Tommaso Debenedetti, oggi eccelso bocconiano, le altre due che mio cugino teneva in cattività, e posso informarvi che lentamente i pettirossi stanno tornando ad essere numerosi, che sono arrivate qualche anno fa le poiane, che sono belle ma sono anche un problema, e che di caprioli dalle mie parti, fatta eccezione per quell’unico maledetto che hanno visto tutti in casa mia, compreso il giardiniere, ma non io che all’epoca me lo immaginavo grande almeno quanto un cervo adulto, non v’è traccia.
Non potrei dire che tutto questo abbia un significato particolare senza cadere in un esercizio intellettual – letterario per il quale non sono portato.
Viatosto è in campagna, e in campagna capitano queste cose.
Capita però, quando si è in campagna di scoprire anche alcune cose che, se si ha la volontà di percepirle, sono in grado di toglierci ogni rimpianto.
Allora so che un giorno d’estate, mentre allenavo i miei cani in un prato sotto casa mia, mi sono fermato a guardare lo steccato ormai pericolante che mio padre fece costruire per il nostro cavallo. Quei pali, forse di gaggia, divorati dal tempo ed inghiottiti dai rovi avevano un particolare fascino decadente. Mentre li guardavo mi sono reso conto che tutte le volte che mi ero fermato a pensare ad una vecchia fotografia in bianco e nero cercando di immaginare come fosse stata effettivamente all’epoca l’immagine in essa rappresentata, avevo perso del tempo. Se avessi avuto 25 anni nel 1930 e avessi guardato quello steccato costruito nel 1911, avrei visto la stessa identica immagine e gli stessi identici colori, sentito gli stessi suoni e gli stessi profumi. In fondo è una banalità, è niente, la stessa riflessione avrei potuta farla altrove.
Però ho provato un certo gusto a rendermi conto di questo guardando uno steccato, simbolo di un insediamento umano: troppo facile sentirsi persi nel tempo nella natura selvaggia. I deserti erano così 2000 anni fa e lo saranno tra altrettanti.
Devo allora riconoscere che il favore che mia sorella mi ha chiesto mi ha costretto ad uscire allo scoperto, e quel niente che Viatosto significa per me, è un niente molto prezioso.
E’ il niente della normalità di un’area che pur vicina alla città ha conservato una propria identità rurale, senza dover per forza scadere nel residenziale da cartolina. Vi sono ancora i cani di paese, non randagi, lo stagno segreto, e forse una qualche discendenza della fagiana bianca. C’è ancora chi si pone il problema di difendere la virtù della propria scrofa dalle razzie notturne dei cinghiali e chi continua, oggi come da sempre a difendere il pollame dalle incursioni delle volpi.
Tutto questo, senza essere in uno dei nostri paesi, ormai relegati a veri e propri musei, riserve indiane che testimoniano un modello di vita ormai in estinzione.
Viatosto allora significa questo, un luogo che dovrebbe essere assolutamente normale, ma non lo può più essere, ed allora ecco che diventa qualcosa di davvero prezioso da difendere.

Talmente prezioso che l’upupa dopo quasi vent’anni è tornata, questa volta fermandosi per due estati consecutive, dissolvendo ogni dubbio sulla mia credibilità, che già l’avevo vista sull’albero di graffioni una mattina che rimasi a casa da scuola in terza o quarta elementare.